C’è una categoria – invero parecchio numerosa – di persone che secondo il diritto non esiste: i migranti climatici.
Infatti, la categoria dei migranti climatici non è riconosciuta in nessun accordo internazionale, tanto meno nella Convenzione di Ginevra sui Diritti dei Rifugiati del 1951 (e successivi Protocolli aggiuntivi), la quale peraltro non prevede affatto i fattori ambientali tra i motivi per definire un rifugiato.
I migranti climatici dunque appartengono alla categoria, anch’essa tagliata fuori dalla Convenzione, dei migranti ambientali; i primi sono persone che decidono di spostarsi a causa delle conseguenze causate dal cambiamento climatico. Negli ultimi anni è stato persino coniato un neologismo inglese per definire il fenomeno: “climigration”.
Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC) nell’anno 2017 circa 18,8 milioni di persone in 135 nazioni hanno dovuto migrare a causa di disastri naturali improvvisi nel proprio paese; nel periodo di nove anni (2008-2016), circa 227,6 milioni di persone sono state spostate internamente come risposta ai disastri naturali (https://www.internal-displacement.org/).
In altre parole, dal 2008, ovvero da quando vengono monitorati i dati dei migranti ambientali, a causa di disastri ambientali in media oltre 25 milioni di persone ogni anno sono costrette a lasciare le proprie case. Il rischio per gli esseri umani di essere sfollati a causa di improvvisi disastri naturali è oggi superiore del 60% rispetto a quarant’anni fa e costituisce un numero di molto superiore a quello di coloro che hanno dovuto fuggire da guerre e violenze.
Secondo i dati IDMC (https://www.internal-displacement.org/global-report/grid2020/), nel 2019 questi sono i Paesi con il più alto numero di migranti dovuti a conflitti armati:
Questi sono i Paesi con il più alto numero di migranti causati da fenomeni naturali:
Di seguito, un grafico generale relativo alla tipologia di cause della migrazione, sempre riferite all’anno 2019:
Come si evince, i fattori ambientali (incluso il cambiamento climatico) costituiscono di gran lunga la principale causa che costringe le persone a migrare, molto più di conflitti armati, tensioni sociali e sistematiche violazioni di diritti umani.
In concreto, le cause delle migrazioni climatiche possono essere tante: l’innalzamento del livello del mare (che minaccia soprattutto i piccoli Stati insulari), la salinizzazione delle aree costiere, gli eventi climatici estremi (quali alluvioni, inondazioni, esondazioni, uragani, etc.), la desertificazione, la radicalizzazione delle condizioni ambientali, il degrado del suolo ed altre ancora.
Tali eventi si innestano in contesti sociali, demografici e politici spesso totalmente inadeguati alla loro gestione. Catastrofi naturali come le inondazioni o le tempeste tropicali causano fenomeni migratori rilevanti soprattutto se in precedenza le autorità hanno posto in essere politiche fallimentari per adattarsi allo specifico rischio ambientale.
In assenza di sistemi di allerta e di piani di salvataggio efficaci, ed in mancanza di adeguati meccanismi di protezione delle vittime, la vulnerabilità di una determinata zona geografica può essere molto maggiore rispetto ad un’altra; nella prima, sarà inevitabile l’abbandono da parte dei suoi abitanti.
La migrazione climatica non è quindi basata unicamente sul cambiamento climatico, ma è una questione complessa che viene innescata dalle condizioni climatiche che si sovrappongono ad aspetti politici e sociali.
Un progetto di ricerca europeo denominato “Environmental Change and Forced Migration Scenarios” (EACH-FOR) ha provato a sistematizzare la categoria dei migranti ambientali (di cui quelli climatici fanno parte) distinguendone tre tipologie: migranti ambientalmente motivati, migranti ambientalmente forzati e rifugiati ambientali (https://migration.unu.edu/research/migration-and-environment/environmental-change-and-forced-migration-scenarios-each-for-2.html#outline).
La categoria dei migranti ambientalmente motivati differisce dalle altre due perché lo spostamento è volontario.
La differenza tra la categoria di migranti ambientalmente forzati e rifugiati ambientali risiede nel fatto che i primi sono soggetti ad una migrazione pianificata e prevedibile ma comunque inevitabile, mentre i rifugiati climatici sono costretti ad improvvise migrazioni di emergenza da scenari catastrofici.
Insomma, stiamo parlando di un fenomeno rilevante, che però gli attuali trattati internazionali non contempla, non essendo incluse le ragioni ambientali (né tanto meno quelle climatiche) tra quelle idonee a far scattare la protezione internazionale accordata ai rifugiati (o profughi).
Per capire a fondo di cosa stiamo parlando, tralasciamo i dati relativi al passato e diamo uno sguardo alle previsioni future.
Secondo un report pubblicato nel gennaio 2020 dal World Economic Forum (WEF) sugli impatti del riscaldamento globale (https://www.weforum.org/agenda/2020/01/top-global-risks-report-climate-change-cyberattacks-economic-political/), entro il 2050 ci potrebbero essere a livello globale circa 143 milioni di migranti a causa delle conseguenze dei mutamenti climatici, pari al 3,5% della popolazione totale delle regioni a rischio. Il report sostiene che tali movimenti potrebbero aumentare sensibilmente dopo il 2050.
Questi dati non sono molto diversi da quelli tracciati dall’UNEP e dalla Banca Mondiale, nel suo report “Groundswell. Preparing for internal climate migration” (https://www.worldbank.org/en/news/infographic/2018/03/19/groundswell—preparing-for-internal-climate-migration) del 2018, dal quale è tratto questo grafico:
Secondo la Banca Mondiale, entro il 2050, fino a 143 milioni di persone che attualmente vivono nei paesi dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina, potrebbero essere costrette a muoversi all’interno dei propri paesi, fuggendo dalle aree meno con minore disponibilità idrica e minore produttività delle colture, oppure da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e dalle mareggiate.
Peraltro, tali dati non sono nemmeno lontani da quelli indicati dall’IPCC (il panel di scienziati esperti di clima dell’ONU) nel suo primo rapporto (AR1) del 1990, secondo cui la migrazione veniva individuata come uno degli impatti più rilevanti del cambiamento climatico, stimando che entro il 2050, circa 150 milioni di persone potrebbero essere sfollate a causa di fenomeni dovuti al cambiamento climatico, come la desertificazione, la crescente scarsità di acqua, alluvioni e uragani.
Come spesso accade, le norme giuridiche arrivano in ritardo rispetto alle esigenze reali; e quella di prevedere e disciplinare una forma di tutela per i migranti climatici è una esigenza non più procrastinabile.
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