Giudizio Universale, la prima causa di giustizia climatica in Italia

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Sabato 5 giugno 2021 è stato presentato il Giudizio Universale, la prima causa climatica contro lo Stato italiano (www.giudiziouniversale.eu).

Io ho avuto il privilegio, umano e professionale, di far parte della squadra che ha lavorato a questo contenzioso, unico nel suo genere nel panorama giudiziario italiano.

Giudizio Universale è il nome dato alla campagna preparatoria di questo giudizio, che si celebrerà dinanzi al Tribunale Civile di Roma e che vede contrapposti da un lato 24 associazioni e 179 persone fisiche (tra cui 17 minori) e dall’altro lo Stato italiano in persona della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il team legale che ha redatto l’atto è composto, oltre che dal sottoscritto, dall’Avv. Raffaele Cesari e dal Prof. Avv. Michele Carducci.

Il giudizio non contiene alcuna richiesta risarcitoria, ma piuttosto nasce da una preoccupazione fortemente avvertita dalla popolazione e dalle associazioni ambientaliste. E’, dunque, un’azione di “attivismo civico”, perché le problematiche sottese al giudizio riguardano tutti.

Abbiamo già visto, qualche settimana fa, come la crisi climatica riveste i caratteri di una vera e propria emergenza e che essa incide profondamente sul godimento dei diritti fondamentali.

Peraltro in Italia viviamo una doppia emergenza, in quanto il nostro paese è un “hotspot climatico”, un’area, cioè, dove gli impatti del cambiamento climatico si fanno sentire maggiormente che altrove, come riconosciuto recentemente anche dal CNR. Non è un caso che la temperatura media in Italia si aumentata del doppio rispetto a quella del Pianeta.

Proprio a causa di queste sue peculiarità, l’Italia – in relazione ai dati relativi al ventennio dal 1999 al 2018 – è stata giudicata dalla ONG Germanwatch il sesto paese al mondo per vittime provocate da eventi climatici estremi ed il diciottesimo per numero di perdite economiche pro capite.

Se dunque è vero che siamo in piena emergenza climatica; se è vero che la stessa è confermata dalla scienza (vedasi i report dell’IPCC, tutti approvati dall’Italia); se è vero che i cambiamenti climatici sono stati definiti dalla quasi totalità degli Stati (si veda la Decisione UNFCCC 1/CP21, adottata dalla COP 21del 2015) “una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e il pianeta”; se è vero che lo stesso Stato italiano e diverse Istituzioni pubbliche rilevano altresì la peculiare vulnerabilità dello Stato italiano agli impatti del cambiamento climatico; se è vero infine che lo Stato italiano si è impegnato a contenere l’incremento delle temperature (si veda l’art. 2 dell’Accordo di Parigi) ad un livello che sia “ben al di sotto di +2°C rispetto ai livelli preindustriali” mirando a proseguire “l’azione volta a limitare tale aumento a +1,5°C”); se è vero che per centrare questi target è indispensabile, come sostiene la comunità scientifica, tagliare le emissioni di gas serra e farlo subito; se è vero tutto questo, allora ci si aspetterebbe dallo Stato italiano una politica climatica adeguata.

E invece no.

Esiste una evidente contraddizione tra le misure di contenimento delle emissioni che lo Stato italiano ha concretamente posto in essere (36% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030) e quelle che dovrebbe adottare per contrastare efficacemente il riscaldamento globale (più del doppio, secondo i dati forniti da autorevoli esponenti della comunità scientifica).

Siccome i tagli alle emissioni di gas serra programmati dall’Italia sono inadeguati, attraverso il giudizio si chiederà al Giudice di ordinare allo Stato di abbattere i livelli di emissione dei gas serra affinchè siano compatibili con il raggiungimento dei target fissati dall’Accordo di Parigi.

Il punto chiave è questo. L’Accordo di Parigi impone alla collettività degli Stati di tagliare le emissioni per contenere l’incremento delle temperature, ma non prevede quali misure ciascuno Stato debba adottare; in questo “spazio libero” si inserisce l’ipocrisia dello Stato italiano (e della maggioranza degli Stati, invero).

L’Accordo di Parigi impone agli Stati l’adozione di misure volte a contenere le temperature attraverso l’individuazione da parte di ciascuno Stato delle misure idonee a raggiungere tali obiettivi (definiti Nationally Determined Contributions – NDC).

Secondo l’UNEP (si veda il Gap Report 2020 pubblicato nel dicembre 2020) gli “attuali NDC degli Stati sono gravemente inadeguati per raggiungere gli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi e porterebbero ad un aumento della temperatura di almeno +3°C entro la fine del secolo”; inoltre, il Report prosegue sostenendo che “i paesi devono aumentare collettivamente le loro ambizioni contenute negli NDC di tre volte per raggiungere l’obiettivo di +2°C e più di cinque volte per raggiungere l’obiettivo degli +1,5°C”.

Dunque, gli Stati autonomamente individuano le iniziative necessarie per tagliare le emissioni ad un livello compatibile con i target fissati dall’Accordo di Parigi, e sistematicamente si allontanano dai percorsi tracciati dalla comunità scientifica.

Il risultato è che le loro politiche climatiche sono inadeguate. Ecco perché in tutto il mondo sono nati i contenziosi contro gli Stati.

E’ toccato anche all’Italia. Del resto, era inevitabile che la sua politica climatica fosse inadeguata, visto che lo Stato italiano non ha mai calcolato il suo “carbon budget”, cioè la quantità di gas serra che è ancora possibile emettere in atmosfera per non sforare gli obiettivi di contenimento della temperatura fissati dall’Accordo di Parigi.

Non conoscere il proprio “carbon budget” non è l’unica anomalia. Lo Stato italiano continua ad approvare delle opere che hanno un impatto climatico mostruoso (come il gasdotto TAP o la linea TAV) o a pianificare altre opere (come il ponte sullo stretto di Messina) senza sapere quale quantità di gas serra sono necessari per realizzarle.

Un atteggiamento contraddittorio e davvero incomprensibile.

Il primo giudizio climatico contro lo Stato italiano nasce proprio da questa contraddizione, che alimenta una diffusa preoccupazione in quanto gli impatti del cambiamento climatico riguardano tutti.

O, meglio, minacciano il godimento dei diritti fondamentali di tutti.

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