Respingimenti collettivi in Libia, quando lo Stato è senza vergogna

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La “Asso Ventinove” è una imbarcazione della Augusta Offshore, impresa privata particolarmente attiva nel Mediterraneo, dove lavora per piattaforme petrolifere di molte compagnie. Si trova spesso ad operare a ridosso della costa libica, avendo specifici contratti di appalti con le piattaforme ENI che insistono su quel tratto di mare.

Le navi della sua flotta sono state impegnate, dal 2012 al luglio 2018, in 262 operazioni di soccorso, traendo in salvo 23.750 persone, poi portate nei porti italiani. Anche dal settembre 2018 in poi, l’impresa è stata coinvolta in diverse operazioni di salvataggio, sempre culminate con la consegna dei naufraghi in un porto sicuro italiano.

Tuttavia, nel luglio 2018 la Augusta Offshore è stata protagonista, almeno in due occasioni, di episodi di vero e proprio respingimento collettivo. In concreto, le persone salvate sono state riportate nuovamente in Libia, con un’azione che la normativa internazionale, ma anche la normativa italiana, qualificano come illegale.

Fino a pochi giorni fa, l’unico episodio noto riguardava un respingimento eseguito a fine luglio 2018 dalla nave “Asso Ventotto”, che ha innescato un procedimento penale culminato con il rinvio a giudizio del capitano e di un rappresentante dell’armatore dinanzi al Tribunale di Napoli.

Ma, grazie all’attività di ricerca svolta dall’attivista Sarita Fratini e dal collettivo “Josi e Loni project” di cui è portavoce, un team di legali, di cui faccio parte, ha ora raccolto un insieme di documenti probatori relativi ad un secondo respingimento, eseguito ai primi di luglio 2018 da un’altra imbarcazione dell’Augusta Offshore: la “Asso Ventinove”.

La vicenda si è verificata il 2 luglio 2018, a danno di circa 150 persone, perlopiù eritrei, etiopi e sudanesi. Tra di loro, vi erano due minori (all’epoca) ed una coppia; lei era incinta all’ottavo mese. Oggi, questi quattro adulti, nonché il bimbo nato dalla coppia, sono protagonisti di un giudizio civile senza precedenti nella storia giudiziaria del nostro paese.

Quelle 150 persone partirono da Al Khums la notte del 30 giugno. Dopo poche ore di navigazione, il gommone cominciò ad imbarcare acqua e venne raggiunto, alle 19:00 circa, dalla motovedetta libica “Zwara”, su cui si trovavano già altri naufraghi raccolti in precedenza. A causa del numero di persone a bordo e delle condizioni del mare, la motovedetta non fu in grado di proseguire la navigazione.

A questo punto, le autorità della Marina Militare italiana stanziate a Tripoli ordinarono alla nave “Asso Ventinove”, che in quel momento procedeva verso la piattaforma petrolifera “Bouri Field”, di raggiungere la motovedetta libica in avaria.

La “Asso Ventinove” giunse sul posto, riscontrando la presenza anche della nave della Marina Militare italiana “Duilio”.

Cosa accade poi, resta in parte un mistero. Quello che si sa è che le autorità militari italiane si rifiutarono di prendere a bordo i naufraghi, ordinando alla “Asso Ventinove” di accoglierli, di ubbidire ad un ufficiale libico e di dirigersi verso Tripoli trascinando la motovedetta “Zwara” a rimorchio.

L’ufficiale libico ed il capitano della “Asso Ventinove” comunicarono ai naufraghi che, se non avessero protestato, sarebbero stati condotti in Italia. Ma dopo averli tranquillizzati ed aver augurato la buona notte, il capitano della “Asso Ventinove” virò gradualmente verso Tripoli, giungendo nei pressi del porto la mattina seguente.

A questo punto, anziché attraccare, decise di fermarsi al largo, trasferendo i naufraghi, tutti comprensibilmente in preda a rabbia e frustrazione, su piccole imbarcazioni, con destinazione i famigerati lager libici: esattamente i luoghi da cui erano scappati. E per aggiunta, prima di essere trasbordati, alcuni di loro furono costretti a pulire la nave.

Quanto sopra risulta dalle prove che siamo riusciti a reperire, e cioè i tracciati di navigazione della “Asso Ventinove”, il diario di bordo della nave e le testimonianze fornite da diverse persone coinvolte nel respingimento.

La parte misteriosa della vicenda riguarda il contenuto delle comunicazioni tra i militari italiani e la “Asso Ventinove”, perché le autorità, alla faccia della trasparenza, non le hanno consegnate, rifiutando di rispondere alle richieste di accesso civico e persino ad un’interrogazione parlamentare sulla vicenda.

L’intenzione evidente delle autorità militari e governative italiane era di silenziare e far scomparire decine di esseri umani, di farli inghiottire dai lager libici.

Ma qualcosa è andato storto. E la vicenda è ora incardinata in un procedimento di giustizia civile.

L’Avvocatura dello Stato ha smentito la nostra ricostruzione degli eventi, affermando: 1) che nessuna unità militare italiana è stata coinvolta nelle operazioni, né direttamente, né indirettamente; 2) che alcun ordine è mai partito da loro; 3) che la responsabilità dell’accaduto è da ascriversi unicamente alla Augusta Offshore ed alle autorità libiche.

Lo hanno messo per iscritto. Un vergognoso scaricabarile che non fa onore alle istituzioni italiane.

Intanto, per effetto di questo respingimento accuratamente tenuto nascosto, quelle persone sono state trattenute in diversi lager: Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan.

Alcuni sono morti, di altri si è persa traccia. Ma tutti hanno vissuto in condizioni atroci: sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti, situazione igienica drammatica. Sono stati maltrattati, abusati, derubati. Hanno assistito a omicidi e torture.

Uno di loro si ammalò di tubercolosi. Un’altra, nonostante l’avanzato stato di gravidanza, fu detenuta e portata in ospedale solo per il parto, e subito riportata nel lager con il bimbo appena nato, senza alcun tipo di assistenza medica.

Quattro di loro, compreso il ragazzo malato di TBC e la mamma che ha partorito, sono ora in Europa, arrivati tramite corridoi umanitari o per effetto di una nuova traversata del Mediterraneo.

Tutti e quattro hanno ricevuto il riconoscimento della protezione internazionale; uno di loro è in Italia, dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato.

Dunque, quel 2 luglio 2018 lo Stato italiano ordinò ad una impresa privata di eseguire una operazione criminosa, senza sporcarsi le mani. Ha provato poi a nasconderla, a cancellarne le tracce.

Quando sono state incalzate, le autorità italiane hanno scaricato la responsabilità sulla impresa privata.

Il punto, morale e politico oltre che giuridico, è che, per effetto di questo respingimento sono stati riportati in Libia centinaia di persone. E molte di loro avevano diritto alla protezione internazionale, come poi è stato riconosciuto dallo stesso Stato italiano.

Questa è la vergogna più grande: impedire agli ultimi degli ultimi, ai più disperati, a quelli che non hanno nulla, di esercitare un loro diritto. E cioè il diritto di presentare domanda di asilo, riconosciuto dalla nostra Costituzione all’art. 10, nonché dalla Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e implicitamente dall’articolo 4 del protocollo addizionale n. 4 alla CEDU.

E questa vergogna è l’effetto della politica di esternalizzazione delle frontiere, una idea di matrice Europea che in realtà è una pratica criminosa.

E va detto che questo crimine si collega alla sottoscrizione, da parte dell’Italia, del “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo Stato della Libia e la Repubblica Italiana”.

Con chi l’Italia lo ha sottoscritto? Esisteva una entità che rappresentasse la Libia?

La parte libica che partecipò a questo Memorandum era il “Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato di Libia” (quello guidato da Al Serraj, per intenderci), che però all’epoca – ed ancora oggi – possedeva il controllo solo di una minima parte del territorio libico. Una cospicua parte era – ed è tuttora – controllata dal Parlamento di Tobruk e dall’esercito del generale Haftar.

In tutto il paese, inoltre, vi sono diversi potentati locali che controllano piccole porzioni di territorio completamente in autonomia rispetto ai governi di Al Serraj ed Haftar.

E in ogni caso, tale accordo – come più volte ricordato dalla Magistratura italiana – non ha alcun valore giuridico, perché è stato concluso senza alcun passaggio formale, in totale spregio dell’art. 80 della Costituzione.

Quando il Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni si è affrettato ad apporre la sua firma in calce a questo non valido memorandum, con un’entità che controllava un decimo della Libia, era consapevole di tali anomalie?

In quella occasione, Gentiloni forse avrebbe dovuto preliminarmente visitare il sito “Viaggiare sicuri” della Farnesina, che riferiva di una “situazione di instabilità e di frammentazione politico-istituzionale che si registra ormai da tempo nel Paese” con l’invito ai cittadini italiani “a non recarsi in Libia” e, a quelli presenti, “a lasciare temporaneamente il Paese”.

Eppure l’Italia, in una situazione del genere, firmava un accordo con cui avviava un’attività di cooperazione “al fine di arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti” mediante “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina” (la guardia di frontiera e la guardia costiera libica, per quel che si è scoperto, non di rado sono in combutta con i trafficanti di uomini), e grazie alla “predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine” (i lager).

Insomma, va detto con parole appropriate: sul presupposto che ogni straniero sia un “migrante illegale”, lo Stato italiano paga un gruppo di soggetti che rappresentano (forse) un pezzettino della Libia per impedire con ogni mezzo alle persone di arrivare sul suolo italiano.

In realtà, nella esecuzione di questo disegno, l’Italia supporta e finanzia direttamente la cosiddetta guardia costiera libica (al cui interno militano anche soggetti coinvolti in imprese criminali), le organizzazioni internazionali che si occupano di migranti e rifugiati e le organizzazioni non governative; e finanzia indirettamente le milizie che gestiscono i centri.

Il fine ultimo di questi finanziamenti è intrappolare e trattenere i cittadini stranieri che transitano per la Libia al fine di arrivare in Europa. Con ogni mezzo. Lo ripeto: con ogni mezzo. Pperché il presupposto è che ogni straniero è comunque un “migrante illegale”.

I lager costituiscono uno di questi mezzi. I lager divorano vite, vite che non potranno essere raccontate. Divorano diritti, diritti che non potranno essere esercitati.

I lager, infatti, significano anche la impossibilità per le persone di presentare la domanda di asilo in Libia, che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Ne deriva che l’ordinamento libico non riconosce affatto il diritto di asilo e qualifica l’ingresso e il soggiorno irregolari come reati punibili con la detenzione in base alla legge che disciplina l’uscita, l’ingresso e la residenza dei cittadini stranieri in Libiasta Offshore e al capitano dell’“Asso Ventinove”, è stato citato in giudizio da cinque eritrei (uno è il piccolo nato nel lager) in relazione al respingimento collettivo di cui abbiamo parlato. Sono cinque fortunati, cinque sopravvissuti, cinque storie che non sono state inghiottite dal sistema criminale dell’esternalizzazione delle frontiere.

Cinque persone che non avevano potuto esercitare i loro diritti e che erano state ingiustamente respinte e sottoposte a trattamenti disumani.

Il sistema criminale messo in piedi dallo Stato italiano ogni tanto ha delle crepe.

La vergogna delle autorità italiane, per come hanno gestito la vicenda anche successivamente, non ha invece alcuna crepa.

Ecco il link del Fatto Quotiano che ha seguito la nostra vicenda legale: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/12/marina-italiana-ha-coordinato-respingimento-illegale-di-migranti-in-libia-cinque-eritrei-citano-in-giudizio-governo-e-unazienda-privata/6099643/

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